Piacenza è una strana città, almeno per noi.
Lo slang sa molto di lumbard e invece siamo alle estreme propaggini occidentali dell’ Emilia Felix.
Girando per l’ urbe si percepisce la solidità di una borghesia che con i daneè ha un rapporto di sobrietà e rispetto.
Se avete tempo, la visita al Duomo è una vera sorpresa.
Austero, ricco, pur se costruito a partire da basi romaniche.
Chissà perché, ma per introdurre Filippo Chiappini Dattilo siamo partiti dalla sua città, cui è molto legato, forse proprio perchè Filippo ne è una delle migliori espressioni.
Figlio della buona borghesia cittadina (quale cuoco, o semplice rampollo di belle speranze, girava allora con due cognomi ?) ha presto mollato gli studi universitari per intraprendere la strada della passione vera.
Dopo aver percorso velocemente i gradini dell’ apprendistato d’ alto bordo (Cogny, Blanc, Haeberlin), sul finire degli anni ’80 Chiappini Dattilo era considerato uno dei baby fenomeni della nascente Nuova Cucina Italiana.
C’erano tutti i presupposti. Il bel locale, moderno, con quelle strane sedute alte un Manhattan, tuttavia estremamente classico per tutto il contesto; quella faccia da borghese, un po’ così bocconiano che doveva essere proprio un fenomeno, certamente un po’matto, per farsi i suoi master ogni giorno in cucina.
Buoni piatti, che facevano divertire e incuriosivano a tornare.
Abbiamo frequentato l’ Antica Osteria proprio in quel periodo, sempre con soddisfazione, anche perché, finalmente, avevamo scoperto che il Gutturnio poteva essere una cosa seria (e buona).
Poi sono passati gli anni.
Forse il Teatro non ha mai avuto titoli a nove colonne, ma lo si ritrova, sempre, nelle coordinate giuste e nei circuiti delle soste di buon livello.
Filippo Chiappini Dattilo ha smesso i tratti del bocconiano genere natu e, oramai, è diventato un signore dall’aria di ragazzino un po’ canuto, ma sempre per bene, sempre dallo stile inappuntabile: potrebbe essere l’avvocato o il commercialista della porta accanto.
Forse perché, nella tradizione della buona borghesia piacentina, si lavora sempre, con tenacia e discrezione, lasciando eventualmente ad altri le luci del proscenio.
Ci siamo tornati dopo lungo tempo e ne andiamo a narrare.
Il locale è ampio, comodo, quasi un Teatro con uso di Cucina.
Ampio il vestibolo, ampio il salottino delle chiacchiere o delle quattro bolle di benvenuto.
La segreteria naviga in un’ ampia metroquadratura che valorizza al meglio un portale in legno di un pregevole cesellatore locale che ritroveremo anche tra le pareti altrove di un palazzo costruito nel ‘400.
Si può viaggiare di Tradizione dell’ oggi, di Degustazione, di Carta nature.
Si può smazzare il tutto e farsi distribuire le carte, cioè i piatti, a piacere.
Il saluto della Cucina è una beneaugurale Crema di Robiola con truffe noir e uovo quagliotto.
Nello zig zag a seguire abbiamo incrociato una Tempura d’Astice e verdure con insalata di puntarelle. Poiché ci aveva incuriosito, più che il nobile crostaceo, l’umile abbinata ciociara, il piatto, a nostro avviso, poteva pigliare un ulteriore spunto sbarazzino con un’iniezione di qualcos’altro, chessò, qualche acciuga proletaria lavorata un po’ qua un po’ la.
Si Chiappina bene, invece, con le Noci di capesante abbinate a testina di vitello, cubotti di peperoni alla brace et balsamique de Modenà. Il gioco di contrasti tra le componenti acquatiche, terragne e ortaiole ne usciva perfettamente armonico, con il plus ad una testina vaccina che, letteralmente, si scioglieva in bocca.
Incrociamo il calice con un’interessante trebbiano delle valli piacentine, tale “L’Alba e la Pietra” in cui l’ etichetta è ancora più aulica della boccia, il tutto tuning by l’ agricola Il Poggiarello. Un po’ freddino come temperatura di servizio, tuttavia l’atmosfera alla tavola era goduriosamente caliente, e quindi il tutto si è acclimatato in fretta.
Approposito del servizio: è attento, curato, con un Maitre/Sommelier che ci ricorda il Barbiere di Siviglia, eppur che siamo in un Teatro, magari a Piacenza. Diciamo che, con quel tono maschio e deciso, tutta la sala rischia di condividere in comunione le caratteristiche della comanda e dei piatti del vicino.
Nelle buone famiglie piacentine si capiva se una ragazza poteva diventare un buon partito da come sapeva trattare i Pisarei, sorta di mini gnocchetti in cui una specie di plin certifica l’impronta della ragazza con l’orecchino di perla in cucina. Dalla sala fuochi, tuttavia, abbiamo sentito solo vociare di ragazzotti esuberanti, eppure, anche se “the times are changing”, la mano era ottima, così come il piatto, che recita, appunto, Pisarei e Fasò della nostra tradizione.
La Cucina di Chiappini Dattilo, a volte, ha dei tratti minimalisti che si potrebbero anche soprassedere.
Un esempio il Filetto di Dentice (ottimo), in cui però il contorno di insalata di arance sanguinelle, indivia e cipolla bianca era un po’ troppo nature. Due toccatine di coulisse, un qualcosa che ricordi il fondo di elaborazione di qualcos’ altro c’avrebbe attrippato un po’ di più.
Come volevasi dimostrare, ad esempio, con l’ ottimo Presalè con carciofo dorato al profumo di menta.
Ritrovare l’ Agnello presalè fa molto roaring eighties. E’ come risentire le arie di una Blondie d’annata o della migliore Joan Armatrading (o dei Fine Young Cannibals, tanto per stare in tema). Adesso tirano (giustamente) l’agneau d’ Alpago, della Val Bisalta & so on.
Eppure questo ovino evergreen ci stava bene, con la polpettina carciofata a latere in cui dominava l’eleganza, invero, delle animelle ungulate.
La Cantina è conseguente con un bel Gutturnio Vignamorello de La Tosa più bella di Vigolzone.
“Houston, abbiamo un problema” … vogliamo fare il bis della Lepre Royale con pera dolce e forte al profumo di cacao.
Che splendide contaminazioni di transalpinia leprotta e medioevalia de noantri.
Un piatto decisamente di altissimo livello in cui Cima Coppi si raggiunge ancora più allegramente pedalando di palato tra le fauci con il foie gras messo a generosa farcia.
Da fare le capriole per la sala alla Blade Runner. Ci si sbarazza del piatto, in the middle of the night, con un certo qual senso di colpa.
Qua il codice Dattilo.scritto (territorio, tradizione, qualità) rimane appieno con una Tarte Tatin (composta) di Porri al formaggio erborinato (una robiola fresca, a memoria).
Si ritorna a terra sull’ Ile flottante, non prima di essere transitati di stoviglie per una Charlotte di pere e frutta secca.
La Charlotte è una delle principali madeleine che anima la cucina del Pippo nostro (piacentino, come bomber Inzaghi).
Profumi di famiglia, di tradizione, di una semplicità al massimo livello, in cui poi si inzuppetta il tutto in un performante gelato alla vaniglia di bourbon.
L’Ile flottante è una specie Ayers Rock che nuota sul piatto; in realtà una meringona semicava che voi vi rovesciate come un guscio di noce e dentro ci buttate a cucchiaiate il flottante, appunto, di agrumi della penisola sorrentina.
Buono, necessariamente sgrassante, a termine di una gastromarathon come si usava da queste parti dalla Mille Miglia in su (e giù).
Petite chocolaterie prima di andare a nanna.
Se uno cerca all’Osteria del Teatro le ultime grida della cucina molecolare o bullesca, meglio che volga la prua altrove.
Se uno vuole selezionare il prossimo Aimo o Pescatore della cucina mix di tradizione e materia prima, certe storie hanno fatto e fanno storia a sè.
Se uno tuttavia vuole avere la certezza di trovare un locale dove ogni piatto è di buon livello (o, al massimo, con alcune
sfumature perfettibili); dove si sta bene; dove, insomma, non si stecca mai tra un atto e l’altro, ebbene il Teatro Dattilo è uno di questi locali.
“Piacenza è il mio teatro. Ho scelto di restare perché ci sono tante cose da far conoscere e ammirare. In cucina cerco il carattere della mia città, i suoi segreti, le sue meraviglie nascoste”.
Ipse dixit (et mantenit).
Vi è anche il plus che, se fate i bravi, vi viene concesso come gita premio: la visita alla Cantina.
Senza togliere nulla all’ ottima Cucina, è una Cave che da sola vale il viaggio, con la soundtrack narrante, a latere, del (sempre) giovane C.D. Filippo.
Centinaia dei migliori cru bordolesi accumulati con attenzione e amore nel tempo.
Verticali da mille e una notte (almeno per i parametri di riferimento nazionali).
“Cosa vuole, per fortuna non ho l’ hobby delle auto d’epoca; non saprei come andarci in giro.
Almeno, per una buona bottiglia, ti siedi al tavolo con gli amici e il tempo scorre più lieve”.
Cento di queste repliche, allora, Filippo, alla tua Cucina e al tuo Teatro dei sapori senza tempo e quotidiani.
ANTICA OSTERIA DEL TEATRO
Via Verdi, 16 – Piacenza
Tel. 0523 – 323777
www.anticaosteriadelteatro.it
Chiude la domenica e il lunedì
Ferie 1-10 gennaio e 1-25 agosto.
Il Menù Tradizione d’Oggi (6 portate) è a 70€
Il Menù Degustazione (7 portate) è a 90€
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