Questo autodafè venne scritto nel 2004. Doveva, in teoria, far parte di un' opera corale, pubblicata per i tipi del Gastronauta, in cui alcuni personaggi raccontavano di come erano divenuti veri (o presunti) cultori del gusto materiale. Il progetto editoriale, poi, prese altre direzioni, e quindi queste memorie sono rimaste nel cassetto. Mi sembrano, tuttavia, l' incipit migliore per accogliervi in questa casa, Powered by Sararlo, appunto. Buona lettura (se ce la fate). Il caffè, ovviamente virtuale, è offerto.
Correva l'Anno Domini 1963.
Correvano anche Lodovico Scarfiotti e Lorenzo Bandini sulle loro Ferrari, ma lo Schumacher di turno era Jim Clark. Sulla Lotus 25.
Il Milan vinceva anche allora la Coppa dei Campioni, nella magica notte di Wembley e Capitan Maldini (Cesare), tra una maldinata e l'altra, aveva condotto i suoi ragazzi, assieme a quell' altro mulo di Nereo Rocco, a distruggere il Benfica di Eusebio & C.
Esordivano i Beatles a segnare un epoca immortalata poi per sempre, molti anni dopo, da "Chi erano mai questi Beatles" degli Stadio nostrani.
Al Quirinale sedeva Segni, non Mariotto, ma Antonio.
JFK, invece di andare a Napoli, volle ammirare Dallas dalla sua Limuosine decapottabile ed entrò per sempre nella leggenda.
Obbedendo al "vuolsi così colà ove si puote" il Cardinal Montini salì al Soglio di Pietro raccogliendo il testimone dal Cardinal Roncalli.
Chi scrive, appartenendo alla generazione dei baby boomers - millesimato 1957 - debuttava nell'agone scolastico, ma essendo, appunto, babyboomer, era col doppio turno, come le amministrative: una settimana al mattino, l'altra al pomeriggio.
Galeotto fu il doppio turno.
Mentre al mattino si esordiva di palato con il panino pane burro e marmellata (oppure, sublime, pane burro e zucchero) e poi vai di sillabario, le cose cambiavano con il turno pomeridiano.
Nel primo caso, infatti, si tornava da scuola e si mangiava tutti assieme, famiglia in conclave; le cose erano forzatamente diverse se aste e sillabario si aprivano nel meriggio.
La tavolata unica non era possibile, perché il turno scolastico richiedeva spignattare anticipato e personalizzato di Nonna Maria.
Mitica Nonna Maria, che hai segnato in maniera indelebile i miei percorsi del gusto.
Allora: funzionava così.
Dovendo mangiare il pargolo in privilegiata anteprima, ecco sorgere core de nonna a preparare per lui le cose che, probabilmente, trentaquarantanni pria preparava per i suoi cinque figli.
La cucina economica era rigorosamente targata Zoppas e andava a legna. Era accessoriata di tutto, come adesso un bolide di Stoccarda full optionals.
I cerchi non erano in lega, ma in ghisa, concentrici ad ospitare fondi di casseruole varie con i loro contenuti assortiti.
A lato c'erano vari box; uno raccoglieva la cenere, che serviva poi per fare la "lissia", cosa che sembrava fare da additivo per un bucato più bianco, mansione della Delia, la tata di allora.
Attorno, sullo scorrimano, erano allineati, pronti all'uso, forchettoni, mestoli, culinaria di varia fatta.
Il pargolo era contento che si avvicinassero i dodici rintocchi; preludio di odori piacevoli ed intriganti; profumi; pazienza se dopo bisognava anche andare a sillabare di ghiande e imbuto.
Nonna Maria si divertiva, tirava fuori il suo repertorio; lei che, da quando aveva otto-nove anni, era in trincea cuocosa, dapprima per aiutare nell'osteria di famiglia, in quel di San Biagio di Callalta, e poi per la numerosa famiglia alle porte di Treviso.
Il fegato alla veneziana, il cuore ai ferri, le cervella in umido o impanate, il risotto con i fegatini o il riso al latte: ogni giorno era una sorpresa.
Financo il salame, rigorosamente di casa, cotto e servito poi con un filo di aceto; era dell'Anna, quella cui guardavamo sottolegonne di nascosto quando rassettava per casa.
Poi finiva il turno pomeridiano e nella settimana mattutina la complicità prandiale si attutiva tra nonna e nipote.
E pazienza, il tempo di inebriarsi della necessaria nostalgia che fa apprezzare ancora di più il ripresentarsi dei piatti della memoria.
Ad un certo punto il pargolo salì di grado e competenza, inizialmente addetto fuochista (che divertimento buttare la legna nella Zoppas e vedere il gioco dei lapilli dentro la piccola fornace domestica); poi, ad un certo punto, venne elevato al rango di vice chef.
Uno dei primi incarichi era quello di grattuggiare nel moulinex il pane vecchio, generalmente rosette. Ne veniva una farina che, in versione confezionata, si chiamava "gris".
Con quella poi, scaldata nell'acqua, si faceva l'oramai rara "Panadea", una specie di zuppa di pane. Il gioco, bello, era quello di buttarvi poi, una volta sul piatto, un filo d'olio. Si formavano gli "occhi", coi quali era bello giocarci, rimestando in attesa di temperatura più favorevole, a rimirare sempre nuove composizioni, chiamiamole pure "occhiate"; semplici, innocenti, ma quanto buone.
Come, sempre nel degustar giocando, quanta goduria quando, nella minestrina di bimbo (che è la stessa dell'ottuagenario), si metteva il formaggino Mio, e lì vai di gomito e forchetta (o cucchiaio) ad amalgamarlo.
Anche i miei figli si divertono, il nonnino novatenne magari meno, ma forse per altri motivi...
Esisteva in casa una piccola batteria di mini pentole, probabilmente rimasuglio di qualche balocco di una zia d'antan o forse guadagnato con i punti della Miralanza o dei dadi Star.
Ecco allora che Nonna Maria comincia a trasmettere al piccolo i segreti di sapiente e antico spignattare.
Su quelle piccole casseruole si sono fatti i primi tentativi di assemblare mini bistecche, piccole frittate, cosucce così, che però davano il gusto dell'approccio manuale e creativo (nel senso del creare vero, non di fantasia in technicolor su piatti in cinemascope) ai piaceri del cibo e della tavola.
Chissà dov'è finita quella piccola batteria di casseruole, ricordata a volte come la Rosebud del Citizen Kane di Orson Welles.
Essendo noi di famiglia originaria di Treviso, trasferiti a Castelfranco Veneto (allora aperta e sana campagna dedita all'emigrazione e al radicchio), immancabile era, nel sabato pomeriggio, il ritono alle origini.
A volte si andava in campagna, da lontani parenti di Nonna Maria a rifornirsi di materia prima: solida (pennuti e conigli, insaccati) o liquida (generalmente raboso o merlot).
La mano del papà avvolgeva affettuosa e protettiva nel portare a scoprire queste radici secolari che il boom oramai conclamato fatto di Vespe e 600 rischiava di spazzar via prima che ci si accingesse, poi, al recupero d'antan.
Ricordi, profumi dell'aia o della cantina. Forse non era tutto perfetto; anzi, ricordo ancora le schedine scadute della sisal (o totocalcio) impilate all'interno di strane "gabbie" di legno fuori nell'aia, prive di Jacuzzi e marmo di Carrara.
Un sabato pomeriggio eravamo soli, io e mio padre. Colpo di vita: una Pizza.
Allora, a Treviso esisteva una sola pizzeria; il forno era a legna. Probabilmente la mia era una Pizza con le acciughe o con le olive (nere), ma ricordo perfettamente il piatto bianco, grosso; la Pizza non debordava dai limiti alluvionata di capricciosa o quattrostagioni. Il cornicione era di spessore. C'era una lieve scia lasciata dal fondo bruciacchiato in qualche punto.
Adesso quella pizzeria non c'è più; dire che vi hanno fatto uno Sushi Bar sarebbe didascalico, ma non siamo lontani dalla realtà.
Ricordo ancora l'entusiasmo del mio vecchio, che allora aveva 42anni. Era felice perché dava una nuova esperienza al figlio, ma credo che anche per lui fosse il debutto pizzaiolo.
Altro ricordo di una gastronomia, dello spirito stavolta.
"Il piatto dea bona siera": intraducibile trevigianismo allorquando, all'ospite capitato in casa all'improvviso, essendo sprovvista la madia di campari, gin fizz o salatini, era uso del padrone di casa offrire un piatto di buona salute, di creanza, un sorriso insomma, corretto al massimo con un caffè. Adesso le chiamerebbero P.R. domestiche; allora era bona siera... e basta.
Mio padre ha sempre avuto quattro o cinque refrain usati come esempi di saggezza o filosofia di vita; la bona siera era uno di questi.
Il giorno dei morti, dalla pasticcieria Casellato, arrivavano le Fave dolci, non ricordo più per quale tradizione; immancabile, invece, il rito della Pinza per l'Epifania, ma la cosa più bella era preparare lo spuntino per Babbo Natale o la Befana. In genere ero io l'addetto al servizio finale. Si serviva anche un po' di vino rosso sul bicchiere; allo spengere delle luci, di quel vino, non rimaneva proprio esattamente quello che era stato versato in precedenza.
Un battesimo di Bacco sotto le ali rassicuranti del Santo Natale.
Ogni domenica di tutto l'anno c'era un curioso personaggio sul sagrato del Duomo che, con voce non proprio gregoriana, aveva il suo canto delle sirene. Un frammento di secondo dopo "l'andate in pace" risuonava sul sagrato ancora vuoto l'eco inconfondibile : " La mandolinaaa". Ovvero semi di zucca tostati e salati venduti per sgranocchiare il tempo della festa.
C'erano alcuni angoli tipici degli habituè dove praticamente c'era una tappeto di questi embrioni di zucca, spolpati delle loro ... cellule staminali.
L'abilità consisteva nello spezzare in verticale la semenza sì che la lingua, prontamente come quella di un formichiere, s'impossessava del frutto. La lieve salatura dell'astuccio dava quel certo non so che.
Un po' come ai giorni nostri il rapporto tra il sale sul bordo del bicchiere e la tequila boom boom, solo che, sui sagrati delle Pievi, questa sarebbe usanza poco decorosa.
Il Signor Mandolina (non aveva un nome e nemmeno un cognome) era vestito sempre uguale, rigorosa la divisa d'ordinanza sia che fosse estate come inverno o primavera, il cesto di vimini a supportare materialmente l'offerta vocale.
La coppoletta sulle ventirè a dare riparo dal sole ferragostano come dalle piogge novembrine.
Da molti anni è sparito, così come più nessuno ha lasciato in giro mucchietti di semenze. Ora si sgranocchiano le noccioline con l'americano o il negroni, più laicamente nei bar prospicienti la vasta piazza, tra un Cherokee e una Cayenne.
Tuttavia, leggenda racconta che il Signor Mandolina sia riuscito a far diventare ingegnere il suo unico figlio, che certo non era, quindi, una testa di...zucca.
Le vacanze erano rigorosamente bipartisan.
Luglio era il mese al mare con Nonna Maria. Jesolo beach, per intenderci.
Non ho mai amato la spiaggia, e del mare mi piacciono i paesaggi e i suoi frutti con pinne e carpaci.
Sono un paria, lo confesso, non so nuotare e il mio primo figlio, per la legge del contrappasso, nuota come un siluro.
La vita era tranquilla, ma ogni tanto c'era la botta di vita.
Si andava dal "fritoìn", evidentemente un' istituzione storica del luogo, che, nel cartoccio di carta gialla, riponeva sfrigolanti pesciolini di cui ancora adesso mi è rimasta memoria. Si mangiava rigorosamente con le mani, passeggiando o seduti su di una panchina.
Mia Nonna rideva, evidentemente in quei riccioli del nipote vedeva scorrere i volti dei suoi piccoli divenuti poi adulti.
Io, francamente, preferivo l'agosto in montagna.
Era l'unico periodo in cui vedevo stabilmente il mio papà. Ci accomunava (o mi ha trasmesso) la passione per i funghi.
A Fiera di Primiero (nel Trentino) vi erano autentici giacimenti di finferli, porcini o chiodini: bastava camminare e saperli cercare.
Ora bisogna avere il patentino, pagare l'ennesima tassa e girare per i boschi (micologicamente semideserti) a targhe alterne, come a San Babila.
Avevo una discreta conoscenza, diretta e indiretta, tramite il libro di Bruno Cetto.
La sera poi, sottocasa, gli amici primierotti del Circolo Bresadola facevano consulenza gratuita ai gitanti. Io stazionavo lì saltando pure Carosello. La micologia per me non aveva più segreti. Allora le consulenze erano gratuite e l'apprendimento pure. Ora a mio figlio dovrei compragli l'enciclopedia a dispense con i modellini delle Russole o dell' Amanita Muscaria (quella con il cappello rosso a pallini bianchi dei sette nani).
La bellezza del tutto stava anche nel circuito diretto dal produttore al consumatore.
La mattina scarpinavi; Ok serale dei Bresadoli e poi il giorno dopo vai di pappardelle, risotti, grigliate.
Insradicabile il ricordo delle Mazze di Tamburo (Lepiota Procera) .
Adocchiate dopo una collinetta, parevano creature futuriste di un Enzo Piano sessantottino (o giù di lì).
Commoventi poi le di loro cappelle impanate e fritte.
Le chiedete oggi, nessuno si ricorda più come sono fatte.
Della montagna rimane ancor oggi una tradizione inveterata.
In luogo esiste e c'è ancora un beccaio particolarmente dedito all'arte dell'affumicatura. Le sue salsiccie convertirebbero anche un imam integralista.
Magico poker: Polenta, Salsiccia, Funghi e Tosela, laddove questa è la prima scrematura del latte colta presso apposita latteria sociale alle prime ore del mattino. Impossibile surgelarla o proporla in versione "quattro salti e un casquè".
Si viaggia accosì, quindi, al primo giorno di arrivo in montagna; senz'altro all'ultimo e poi al ritorno nel piano.
Mia mamma, ora quadri-nonna, regista ai fornelli; mio padre voce narrante di amarcord alpini per figli e nipoti.
Un' ultima parentesi la dedichiamo al Chinotto, pregiata versione autarchica di globalizzate cola-dispepsi.
Era un rito bimensile, allorquando, accompagnando mia Nonna nel capoluogo a ritirar pensione (mai si tolse da cittadina trevigiana), dopo il tragitto in corriera, così chiamavasi autopulmann, regolare pit stop in pasticceria e "ruttino" liberatore chinotto inspired.
Lavorando mia mamma, i piatti della nonna mi hanno accompagnato fino all'adolescenza, età in cui si comincia a mettere il naso (e anche il palato) fuori della porta di casa.
Confesso di non aver mai fatto parte della Compagnia della Nutella. Allora c'era una specie di formella di nocciola bicolore, uno strato più chiaro e uno più scuro, che si trovava dal pizzicagnolo sottocasa.
Non ho mai nemmeno amato i cosiddetti "ciuccietti", rappresentati in primis da quelle gommosità spacciate per liquirizia, avvolte su se stesse come gli zampironi.
Negli anni ‘70 una prima omologazione del gusto era già palese; non c'erano soltanto i sacchetti delle Patatine Pai ma, chissà per quale miracolo, vi fu un periodo che, davanti al cortile della nostra scuola media (sezione provvisoria e staccata, sempre per la "quota" babyboomers), veniva un ometto alto e magro che, sulla canna della bicicletta, aveva un piccolo mastelletto di legno che racchiudeva una panna fantastica, preparata evidentemente in cascina. Non era cotonata come quella che si vede ancora adesso uscire dai barattoloni dei bar, ma morbida, cremosa; si sentiva la correzione zuccherina di mano finale. Servita con una parsimonia che, dietro nostra insistenza, diveniva quasi subìta prodigalità in coni da 20 o 50 lire.
E' durato una sola stagione. Probabilmente la nostra insistenza interessata deve averlo fatto desistere, o per tracollo economico, o nervoso, o perchè madre natura ha le sue regole .. eterne.
Negli anni universitari ho sempre rifuggito le mense con marmitta goliardica.
Preferivo prepararmi in casa - nella tana di studente in trasferta - sia codificata culinaria familiare che qualche rielaborazione frutto di insana frenesia creativa (questa volta sì intesa come "arte" e tecnica in libertà).
Chissa perché, ma mi ero appassionato agli spaghetti con la ketchup. Un giorno invitai un mio amico, ora valente principe del foro. Il suo educato commento fu "... però".
Un'altra volta mi inventai gli spaghetti con la mozzarella "gelèè".
Prologo. Riporre una mozzarella in congelatore.
Preparare come da scuola spaghetti e salsa al pomodoro (regular, stavolta, non di Heinz o Paul Newman).
Nel frattempo togliere mozzarella con rigor iceberg, imbracciare coltellaccio stile "non aprite quella porta", tagliare in tanti dadetti struttura congelata.
La genialata supposta era che poi, nel buttare tale dadolata su pasta e pummarola fumanti, il subitaneo riprendere temperatura conferiva ai bianchi confetti vaccini una elasticità che, grazie anche al gioco di contrasti di temperature, rendeva il tutto godibile e giocondo.
Probabilmente abile nel promuovere e suscitar curiosità (non erano ancora i tempi di Vissani in tivù) un sabato sera venni invitato a dare dimostrazione di tanto talento in augusta e importante famiglia cittadina.
Ricordo ancora come il curioso stupore iniziale della padrona di casa si trasformò in un rassegnato, anche se ben controllato, "ah che tempi, hanno troppa libertà questi ragazzi".
Dopo aver capito che il mio radioso futuro ai fornelli avrebbe avuto una ridimensionata dei suoi orizzonti di gloria, mi sono concentrato maggiormente sull' aspetto organizzativo. Se Maometto non va alla montagna...
Verso la metà del mio curricula universitario allietai il mio dopolavoro militando nel Rotaract, una sorta di Under 25 per aspiranti professionisti, rotariani o giu di lì.
In realtà, attraverso le strutture di un' organizzazione organizzabile, era possibile (anche) inventare e gestire cose altrimenti difficilmente ipotizzabili in solitudo.
Tra le tante iniziative (visite alla Ferrari - Enzo living; mostre; cineforum; concerti, quasi sempre per beneficenza) anche il gastromondo ebbe il suo angolo di attenzione.
Ecco allora qualche pellegrinaggio ad abbordabili tempietti del gusto, uno per tutti "Il Cappello" a Mel, nel bellunese, che nei primi anni '80 andava abbastanza forte.
Il clou forse è stata una serata con Bepo Maffioli, autentico mito della ristorazione trevigiana e nazionale.
Oramai era malandato assai, tanto che, per venire a gestire una serata a Castelfranco sulla gastronomia trevigiana, ottenne un permesso speciale dall'ospedale che, come un militare, gli accordò un "ventiquattro".
Lo andai a prendere e riaccompagnare personalmente. Tanto era stato guizzante e divertente a cena, pur non toccando praticamente niente, tanto nel tragitto va e vieni bofonchiò poche parole in stato di apparente semi-incoscienza da coma diabetico.
Un week end venne Kurt, un giovane architetto di Los Angeles, in un programma di scambio di visite tra club. Lo portai ad Asolo, e sin qui passi; poi a Treviso, e qui impazzì letteralmente in quella splendida istituzione trevigiana quale era l'Osteria Antica Colonna.
Sentivi ancora respirare l'atmosfera dei Martini (lo scultore, non il Vermouth di Sciòn Connery), dei Comisso, di un Maffioli in calzoni corti.
In quei roaring seventies (ruggenti '70, come i New Trolls e la Ferrari Daytona ), l'osteria non era ancora un fenomeno trendy; l'happy our era valida sempre, ma l'andarvi era principalmente un' esigenza e un rito sociale vissuto con composta dedizione.
Adesso, al suo posto, hanno eretto un parcheggio.
Ricorderò sempre che, nell'allora "bianchissima" Treviso, il proprietario custodiva gelosamente esposto, in una vetrinetta della madia, un "santino" con Baffone Stalin...
Di quegli anni resistono ancora cammei entrati nel terzo millennio: il Panino alla porchetta da Beltrame; la "Mozza" in carrozza, mozzarella impanata con farcia di prosciutto o acciughe, ma siamo in un'epoca che già allora viveva contaminazioni paninare; l'innocenza dei pantaloni corti e di palato e occhi sognanti era oramai in gran parte perduta.
A proposito di panini.
C'era un tale "da Giovanni" a Padova, zona Biri, che faceva delle "sleppe così", ossia prosciutto, mortadella, salumi vari e poi mozzarella, verdure assortite, quant'altro e, perché non andassero disperse, le circondava a marsupio da due fettazze di pane a cassetta, formato jumbo come le mani di Primo Carnera, il tutto passato alla piastra.
Code interminabili la sera, si parlava di esami, ma anche di altri misteri di una vita tutta, per certi versi, ancora da scoprire.
Adesso "Giovanni" ha un piccolo bar in centro, vicino alla stazione. Vende baci perugina e qualche caffè.
Entrate, vi guarda con la pupilla accomodata all'infinito e vi chiede se lo volete liscio o corretto...
Anche i titoli della da sempre folta biblioteca cominciavano ad arricchire la sezione Gastro & C.
Memorabile la collana di Franco Muzzio Editore sulle cucine del territorio, ma il libro che forse ha più coinvolto è stato "Oste della Malora" di Luigi Volpicelli.
Nobiluomo d'antan, in un' epoca in cui gli osti triplicavano i turni a sedere di decine e decine di coperti, arricchiti da bis e tris con panna, vodka, o quantaltro, lui ricordava le sane trattorie dell'interguerra (detto anche ventennio) o del dopoDux sino agli albori del boom economico.
Era forse la prima testimonianza di un desiderio/necessità di capire e ricordare un periodo appena passato, di cui però la mia infanzia aveva fatto in tempo a pucciare di gusto e fantasia.
Ne regalai diverse copie ad altri amici, con il desiderio di coinvolgerli in materia.
Poi arriva la professione e la storia è recente, quella dei miei secondi ventanni, con qualche scampolo.
Si comincia a girare per aggiornamento, ma anche per passione abbinata.
La scelta odontoiatrica forse potrebbe esser freudianamente spiegata per ...affinità elettive con il dna ghiottone, in fondo sempre di fauci si tratta.
La "prima volta", quella vera, si può probabilmente definire "al Bersagliere" di Goito, sia per il servizio, che per la qualità dei piatti, che per tante altre sfumature tali per cui, su qualche particolare, tradii, innocentemente, il mio essere debuttante.
Divertente ricordare anche "Il Cassinino", a Pavia, un trionfo di argenti old english ed il primo impatto, a dire la verità suscitato più dalla curiosità del nome che dalla conoscenza del suo effettivo valore, con il Sassicaia, valore che anche sul versante qualità prezzo era particolarmente allettante (tanto è vero che potei permettermelo).
Ho un bel ricordo anche di Franco Colombani, della sua tavolata unica per commensali che, pur senza conoscersi,
affabulavano assieme dopo poche battute all'ombra del "Sole" e della sua cascina.
Ho fatto in tempo a visitare Villa Mozart, a Merano, ma il suo genius loci era già pendolare con gli States.
Allora il gastromondo cominciava a far capolino e tendenza anche sulla carta stampata.
Queimada della pignatta si faceva largo il Raspelli castigacuochi, ma trovavo più affinità con tale Davide Paolini, a me mi piaceva la sua prosa un po' scanzonata, ma precisa e puntuale, sull'inserto domenicale del 24 ore.
Poi, per qualche tempo, il lunedì (o il sabato?), l'amaro calice.
Lettore da sempre del Montanelliano Giornale (con tanto di dedica personalizzata sul primo numero del 24.06.74) avvolgevo all'interno dello stesso nientepopodimeno che il Manifesto; iniziava l'inserto del Gambero, ovviamente rosso, solido fenomeno editoriale degli ultimi anni.
Ugo Tognazzi, dopo la Grande Abbuffata, si dedicava anche all'editoria con "Nuova Cucina", primo contraltare al monopolio patinato de "La Cucina Italiana", competitivo soprattutto per la parte iconografica.
Tra un molare e un congresso, i colleghi d'allora, compreso qualche cattedratico ghiottone, mi delegavano competenza logistica per scegliere tavola eletta.
Mi impegnavo, ma non sempre trovavo affinità elettive.
Una sera, al San Domenico di Imola, con Morini che ancora non si occupava solo dello spogliatoio, primo campanello d'allarme.
Garganelli con Gamberetti e fiori di zucca.
Al medesimo tavolo, commensale noto per parlare un tono sopra le grida di abituali strilloni di carta stampata (quelli poi sostituiti agli angoli delle strade dai vù lavà), regolare Marlboro a fare Jhon Wayne del trapano, chiede il... grana (che non è il conto, ma il cacio grattuggiato).
Morini delega all'ultimo dei suoi cortese riposta che, in genere,...non si usa.
Jhon "trapano" Wayne replica stupito, sgranando gli occhioni resi ancor più grandi dalle lenti miopiche, che lui "era sempre stato abituato così" ( sic !, sigh & sob...).
Altra mazzata.
Debutto corale in via Ghibellina, Chez Pinchiorri.
Molti emozionati per l'evento, qualcuno, pur debuttante, considera finalmente di essere arrivato a tavolo degno delle sue nobili terga.
Al rimestar di calice per formale verifica della bontà della boccia, con fare sbrigativo da briatore antelitteram, tale sbarbatello di beva rimanda indietro con fare allarmato "...sa di tappo"; da Pinchiorri la sanno lunga anche in fatto di savoir faire con Jap o coreani.
Altro giro, altra boccia: il Soldera è del medesimo millesimo, ovviamente.
Niente da fare, per uno che al massimo aveva bevuto il "rosso della casa" fino allaltro ieri, il retrogusto è inaccettabile.
Non siamo stati mandati a desinare seduti sul marciapiede di fronte, ma nella comunicazione non verbale con il personale di sala il messaggio era lapalissiano.
A quel punto la mia fame di aggiornamento era pari al desiderio di abbinare conoscenza culinaria, ma anche umana, di personaggi, maestri e ambasciatori del gusto, con percorsi ovviamente diversi dalla colleganza trapanosa.
Memorabili alcune spedizioni. Da Saluzzo, una sera a Nizza per Roger Vergè, splendida l'atmosfera del Colle di Tenda, lì poi, al Moulin des Mougins, era clima da Festival di Cannes; le bellezze in panoramica visione andavano anche oltre i
confini dei piatti.
Una volta, a Como, non riuscii a negarmi una spedizione in Alsazia, dai fratelli Haberlin a "L'Auberge de l'Hill".
Il giorno dopo arrivai un pò in ritardo all'appuntamento con la devitalizzazione del dente del giudizio incluso.
Cominciavo ad avere un rapporto personale con diversi personaggi, da Aimo Moroni a G.Franco Bolognesi, Moreno Cedroni era ancora in calzoni corti e senza bandana.
Sono stato tra i primi a vedere Massimiliano Alajmo all'opera, diciannovenne, accompagnato per i tavoli da Mamma Rita che così, idealmente, ne passava il testimone di ammiraglio ai fornelli delle Calandre portate poi, con il fratello Raffaele, in breve tempo ai noti vertici del firmamento tristellare.
Inguaribile romantico e autodidatta volevo mantenere memoria di tali esperienze che diventavano via via sempre più affascinanti e coinvolgenti.
Piccoli notes, tra cui i Moleskyne, per prendere appunti di cicerchie, coulisse e abbacchi.
All'inizio ero tremebondo, mi vergognavo quasi, poi mangiai la foglia.
Il fatto di presentarmi spesso in solitaire, fare comanda che andava ben oltre la media dei commensali di passo, l'annotare furtivo di appunti galeotti, l'aver fatto tra una portata e l'altra domande curiose con l'affabilità di un qualsiasi commissario Maigret, mi fecero spesso passare per presunto (o sospetto) guidaiolo.
Ancora adesso, a distanza di tredici anni, da un certo locale di Neive (dove mi guardo bene dal rimetterci piede e palato) mi arriva ogni Natale l'augurio in foto di una famiglia che, nel frattempo, si è allargata di figli e nipoti...
Confesso che mi sono divertito.
Cresciuto di grado anche nell'associazionismo, divenuto Rotariano, ripresi l'antica consuetudine di organizzare appuntamenti di varia umanità.
Dopo un inenarrabile pedinamento telefonico riuscii a raggiungere la firma di cui conoscevo da tempo immemore...millanta articoli: "Il" Paolini Davide, non ancora targato Gastronauta.
Con la scusa di presentare il suo libro "Viaggio nei Giacimenti Golosi" organizzai, anche per i miei amici rotariani, un ideale Gran Tour attraverso l'Italia con un menù molto peninsulare.
Diedero il loro entusiasta contributo, facendo arrivare il loro bendiddio, anche Aimo Moroni e Gianfranco Bolognesi.
Il Gastronauta, che è un buon cane da tartufo, probabilmente quella sera fu contento di aver accettato l'invito telefonico di quel suo sconosciuto lettore fidelizzato da anni.
Dopo qualche tempo mi cercò, invitandomi a fare da gosth writer per il suo girovagare l'Italia di forchetta.
Ecco allora che gli appunti sparsi per la propria memoria si trasformarono in memoria scritta , non solo per lettura personale, ma anche per quei ben più di venti lettori di manzoniana memoria che la firma nazionale ha riunito da anni.
Poi c'è stata l'evoluzione mediatica ed è sorta apposita rubrica su Radio 24: "Il Gastronauta", appunto.
Il resto è storia di ieri. Invitato a partecipare radiofonicamente a questa Radio Londra dei gusti e retrogusti ho visto sempre più organizzarsi in forma piacevole e divertente quella che per me era una passione vissuta un po' in maniera carbonara e con qualche senso di colpa, anche colesterolico.
Una delle più grandi soddisfazioni è sata quella puntata in cui, parlando dei piatti della memoria, usando il nickname di Bruno da Vicenza, tirai fuori il ricordo del Riso al Latte di Nonna Maria: scoperchiai un vaso di Pandora; il centralino economico fu invaso da struggenti nostalgie di un piatto che viveva, con diverse sfumature, nei ricordi di tuttitalia.
La settimana dopo il Riso al Latte ebbe l'onore di puntata dedicata.
Forse guadagnai qualche punto con Il Paolo, anche se ufficialmente ero Bruno da Vicenza.
Ricevo qualche invito mirato da parte di ristoratori amici oppure, i più folli tra loro, mi hanno addirittura onorato di fare voce e palato narranti per i loro percorsi del gusto, alcuni dei quali hanno visto anche un centinaio di commensali in entusiasta degustazione e paziente ascolto, e non mi sembrava questo essere nè passivo, né subìto.
Il resto, appunto, è storia di oggi, e quindi va vissuto con la spontaneità e l'entusiasmo che mi hanno accompagnato da sempre. Ma il ricordo dell'imprinting di Nonna Maria è stato fondamentale.
Ho abbandonato, come dicevo, i trapanatori fumanti con retrogusto di tappo, e ho trovato Compagni di Filibusta con i quali condivido piaceri e complicità di questo mondo dei sensi, di piaceri che vanno ben oltre il gusto del retrogusto o della beva millesimata.
Pino, Ruggero, Pippo, Wolfgang, Franco beccaio, Giorgio, Davide (sì, "lui") per cementare ancor di più le nostre affinità ci siamo autopromossi al rango di Cavalieri, una Confraternita Calandrosa, non certo esclusiva, se non per la purezza dello spirito che ci accomuna.
Ora il testimone della memoria è passato a mia Mamma, divenuta quadri-nonna.
Nelle serate estive, quando il figliol prodigo torna all'ovile causa la famiglia in trasferta marina, ricompaiono altri amarcord. Il Galletto ai ferri; Sinfonie dell'orto belle per sapori, colori e composizione, a metà tra il mosaico e l'Arcimboldo. Le Sarde in Saor sono macerate sì per giorni, a valorizzarle, ma soprattutto con amore e pazienza. Imperdibile una originale interpretazione della parmigiana in versione light, slim, ultrabassa come le TV al plasma o la Maserati Barchetta, così come, forever young, un fantastico pasticcio di crepes salate con gamberetti e zucchine.
Noto in lei la stessa dedizione entusiasta che aveva mia Nonna, sia nel proporre al figlio oramai sulla via della mezza età le emozioni di bimbo, sia nell'opera di catechismo gastronomico diretto ai miei tre figli nell'educarli a percorsi del gusto che li rendano poi ghiottoni (forse), ma comunque consapevoli ed entusiasti dello stare a tavola.
Stare a tavola inteso, forse, anche come cartina al tornasole per vivere appieno quell'esperienza meravigliosa quale è "l'unicum" della nostra vita di uomini.
Di questi miei Tre Moschettieri, forse uno sarà il predestinato, anche se core di babbo deve essere imparziale come l'arbitro Collina. Comincia già a fare piccoli abbinamenti personali, pur se classe '96; inizia già a chiedere alla nonna di partecipare al "rito" e pasticcia un po', con le sue manine operose, nell'assemblare poi qualcosa che si papperà con gioia.
Già dimostra occhio e sapienza nell'impiattare per il gusto non solo del palato, ma anche dell'occhio, ricercando armonia di forme e colori.
Certo, per mia Mamma, che è sua nonna, e per lui, oramai proiettato nel terzo millennio, la concorrenza sarà un po' più dura, tra una globalizzazione targata pringles, fushion fast food e ricerca delle memoria; ma auguro a Lui e ai suoi Fratelli di poter vivere, almeno in parte, il percorso e le emozioni che ha vissuto il suo papà; grazie alla Nonna, agli Amici, agli Chef che verranno e a qualche Giornalista o Scrittore illuminato che saprà farli crescere di Sapienza e Conoscenza.
Categoria: Sararliche
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